True Detective
Dura, violenta e controcorrente. La serie di True Detective risulta lo specchio perfetto del suo protagonista principale, Rust Cole, interpretato da Matthew McConaughey. Otto episodi che si fanno largo nel vostro stomaco passando attraverso la testa.
Dura, violenta e controcorrente. Lo è nella costruzione, nelle immagini, nelle situazioni e nei personaggi. Lo è nel realismo e nella costruzione psicologica. Lo è nella folle e totale immersione in cui vi trascina e vi porta con sé. Tutto in questa serie grida al grande cinema. L’aspetto, la regia, la fotografia, la costruzione, la scrittura. E l’interpretazione. Tutti gli attori sono al massimo, ma Matthew McConaughey e Woody Harrelson ci regalano due performance da pelle d’oca. Un livello mai visto su un prodotto seriale. E recentemente abbiamo avuto Bryan Cranston con Breaking Bad e Kevin Spacey con House of Cards, solo per citare due casi eclatanti. Fa effetto ricordare McConaughey nella sua lunga carriera in romantic comedy dopo averlo visto in una performance così sconvolgente, il cui picco massimo viene toccato nella versione al tempo presente del suo personaggio, emaciato e dai capelli lunghi e bianchi . Eppure, nonostante l’incredibile bravura della coppia McConaughey/Harrelson, non è solo la loro qualità recitativa a tenere in piedi il serial.
Merito probabilmente anche di una lavorazione che presenta, ancora, un’altra anomalia più vicina al cinema che non ai serial. Tutti gli otto episodi infatti sono stati scritti da un’unica mano, quella di Nick Pizzolatto, che è anche il creatore della serie, e diretti da un unico regista, Cary Joji Fukunaga. Il risultato è un unicum con una continuità fortissima e che ne amplifica l’impatto e il coinvolgimento. Il meccanismo dell’indagine su due linee temporali differenti crea un gioco molto intrigante, spostando e spesso trasformando i canonici giochi dei colpi di scena. Spesso infatti il tempo presente li svela implicitamente. Inoltre il lato e le vicende umane e personali hanno un ruolo difficilmente districabile dall’indagine stessa, rendendo i confini pressoché inesistenti. Tecnicamente non esistono vere e proprie sottotrame, perché tutto concorre a portare avanti la medesima storia, quella di un’indagine dai numerosi punti oscuri e dai diversi livelli. Parlando della scrittura, i dialoghi, soprattutto quelli che vedono protagonista Rust, sono di altissimo livello e si permettono di declinare e lanciarsi in derive filosofiche e teorizzazioni sull’essere umano e l’universo senza scadere nel retorico e senza mai diventare una pausa nella narrazione. Rust è in quei dialoghi e seguirli significa approfondirne la conoscenza. Una conoscenza appassionante.
La serie accenna dei richiami ad un certo tipo di letteratura, di cui mutua pesantemente certe atmosfere, con riferimenti che hanno risonanze nelle opere di autori tra i padri putativi della letteratura horror, come Ambrose Bierce, il creatore della città di Carcosa, e Robert William Chambers (scrittore inedito in Italia), autore della raccolta di racconti The King in Yellow, e tra gli ispiratori di Lovecraft. Seppure il tema permea la serie, il lato più sovrannaturale della storia resta al margine, senza mai diventare (volutamente) un punto fermo o un elemento realmente esplicito della storia. È una possibilità? La risposta a questa domanda non ha un ruolo fondamentale nell’economia della risoluzione dell’indagine e dei personaggi, per cui non lo ha nemmeno nella storia. Agli spettatori l’eventuale compito di dare una propria risposta, senza che questo risulti essere una mancanza o un aspettativa delusa, nonostante tra il pubblico qualcuno si sia lasciato intrigare dalla possibilità.
[box title=”Approfondimento – The King In Yellow”]
La raccolta di racconti The King in Yellow, il re in giallo, presenta storie brevi che ruotano tutte intorno ad un fantomatico libro, The King in Yellow appunto, che farebbe impazzire le persone che lo leggono. Non è difficile riconoscere l’idea molto vicina del “Necronomicon”, il libro dei morti citato nei racconti di Lovecraft (grande ammiratore di Chambers) e utilizzato in tantissime altre storie. Ma non è solo Lovecraft ad esserglisi ispirato. Omaggi ai suoi lavori si trovano in racconti di Stephen King, Robert Heinlein, Raymond Chandler, Marion Zimmer Bradley, e tanti altri. Esiste persino un Hotel in Kuala Lumpur che si chiama Carcosa Seri Negara, ispirato a the King in Yellow. Molte delle storie di William Chambers sono state trasposte in film, la maggior parte nei primi anni del cinema. Inutile dire che anche questi sono praticamente tutti inediti in Italia, incluso uno dei più recenti, The Yellow Sign di Aaron Vanek, realizzato nel 2001. Chissà che l’arrivo in chiaro di questa serie non porti qualcuno a rimediare questa assenza…
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