John McClane – Duro a Morire
È appena tornato nelle sale per prendere a calci qualche altro motherf*cker, che già gira voce di un futuro nuovo capitolo. Non c’è riposo per il povero John McClane, poliziotto rude che in una lontana notte di Natale si è conquistato un posto nel cuore adrenalinico di ogni action fan e non.
Sarà la sua recalcitranza, chiave di volta di un uomo condannato ad essere quello giusto nel luogo e nel momento sbagliato (almeno per lui), i mal di testa e quel perenne senso di frustrazione, di qualcuno che vorrebbe semplicemente essere lasciato in pace, a farne uno tra i più umani e amabili tough guy dell’action thriller figlio degli anni ’80.
John McClane è tosto, maledettamente sveglio, capace e ben poco disposto a subire o ad arrendersi. Ma si fa anche male. Dannatamente male. E queste sue qualità e capacità non sono mai un mezzo o uno strumento per porsi al di sopra degli altri. Sono anzi per lui quasi una condanna, nella stessa misura che può esserlo per il medico o il tecnico a cui amici e conoscenti non fanno che chiedere diagnosi o consulenze in ogni occasione.
Insomma, non stiamo certo parlando di un eroe! Vedete per caso mantelli, costumi o uniformi? No, John McClane al massimo indossa una canottiera, che non impiegherà molto a diventare parecchio zozza. Di sangue, soprattutto. E molto anche suo.
Come si fa a non affezionarsi, a non empatizzare?
Bruce Willis ha il physique du role perfetto. Non propriamente l’uomo comune ma nemmeno il figaccione o l’ipersteroidato di turno, mantiene intatta e assolutamente credibile questa patina umana. Il fatto che sia anche un ottimo attore e che sembra sia nato per ruoli del genere non può che alzare il livello.
Tutto inizia nel 1988, con John McTiernan, regista altalenante che ci ha regalato il primo Predator, Caccia a Ottobre Rosso, ma anche Last Action Hero (una buona idea sprecata) e Il Tredicesimo Guerriero. Willis arrivava da una serie tv, Moonlighting, e da qualche commedia tra cui Appuntamento al buio di Blake Edwards con una Kim Basinger in piena notorietà. Il film è basato su un libro di Roderick Thorp, Nothing Lasts Forever, sequel di un altro romanzo intitolato The Detective: la serialità era già nel DNA di nascita.
La storia racconta di un assedio ad un grattacielo messo in piedi da un gruppo di criminali con un ottimo piano ma un imprevisto, quello appunto di John McClane, che si troverà a rompere le famose uova nel paniere. Un altro elemento che sicuramente solleva la qualità di un film, che poteva rimanere confinato nel recinto di tanti altre pellicole del periodo, è il cattivo, magistralmente interpretato da Alan Rickman, assolutamente sui generis e intrigante nel suo taglio ironico e affascinante (non molto lontano da un altro cattivo di Rickman, quello sceriffo di Nottingham che rende notevole il Kostneriano Robin Hood – Principe dei ladri). Insomma, Die Hard – Trappola di Cristallo funziona e piace, lanciando Willis nell’olimpo delle star.
Il finlandese Renny Harlin, che ricorderemo soprattutto per essere stato sposato per qualche anno con Geena Davis, firma nel 1990 il primo sequel, Die Harder – 58 minuti per morire. Questa volta ci troviamo in un aeroporto e tra i cattivi annoveriamo il nostrano Franco Nero. Piuttosto fracassone, il film è dignitoso ma si piazza sicuramente come il fanalino di coda della prima trilogia, e serve giusto a traghettarci al ritorno di McTiernan, che per il terzo capitolo ci regala quello che è probabilmente il suo miglior film, nonchè il più riuscito della saga.
Die Hard – duri a morire mette in scena nel 1995 una coppia inusuale e potentissima, formata da un Bruce Willis e un Samuel L. Jackson (Zeus Carter) in splendida forma e grande affiatamento, vedersi confrontare con un Jeremy Irons folgorante, in una continua rincorsa adrenalinica dietro giochi e doppi giochi, offrendo un sequel che si riaggancia direttamente alla prima pellicola e la supera di diverse spanne. Questa volta non più luoghi chiusi e non più un McClane solitario o quasi, ma spazi aperti e un compagno d’avventura come i più classici action polizieschi, anche se in pura salsa Die Hard. Che si sia appassionati o meno alla saga, questa è una delle migliori pellicole del genere degli anni ’90 (per non essere esagerati).
Poi ci vogliono 12 anni anni per ritrovare Willis nei panni di McClane. Precisamente nel 2007 quando esce Die Hard – Vivere o Morire, diretto da Len Wiseman, regista e sceneggiatore dei primi due capitoli della saga vampirico-licantropa di Underworld. Esagerato, roboante e aggiornato con temi legati all’informatica (la sceneggiatura si basa su un articolo giornalistico uscito su Wired nel 1997, Addio alle armi di John Carlin), il film è stordente e divertente. Anche questa volta Willis ha un compagno, interpretato dall’allora astro nascente Justin Long. Palese come la fonte di ispirazione di questo nuovo sequel sia soprattutto la terza pellicola, a cui in qualche modo questa corre dietro senza però raggiungerla. Il film è un po’ fuori canone rispetto ai precedenti, ma si lascia ancora godere.
Tutt’altra musica per quanto riguarda Die Hard – Un buon giorno per morire (2013). Diretto da un John Moore, che risulta subito particolarmente antipatico. Inizia subito con una serie di riprese traballanti che nemmeno Edoardo Vianello, per poi stremarci con una seconda parte dove il rallenty la fa da padrone: il film si aggiudica quindi un piazzamento di tutto rilievo nella nostra classifica degli action più noiosi a cui abbiamo assistito.
Completamente fuori canone il personaggio di John McClane: un pessimo caso di omonimia che risulta per tutto il film fuori sincrono, mancando totalmente tutti gli elementi che avevano reso grande il personaggio e sbagliando i pochi che hanno deciso di tenere. L’impressione generale è che chi ha realizzato il film si sia accontentato di guardare solo il quarto dimenticando di dare una controllatina alla precedente trilogia. Uno degli elementi chiave della saga di Die Hard, ad esempio, è sempre stata la presenza del villain dotato di un intelletto superiore e di un piano di notevole costruzione, sostituito in questo capitolo da un personaggio che non farebbe bella figura nemmeno in un film di Steven Segal.
Specularmente a quello che abbiamo detto per il terzo capitolo – a prescindere che siate fan o meno di Die Hard – questo invece è un pessimo film. Trama imbarazzante, piena di buchi ed errori per una pellicola che ha la capacità di risultare soporifera nonostante una quantità di macchine distrutte, sparatorie, armi assurde ed enormi elicotteri. Una delusione tale che quella che all’inizio sembrava una promessa, un possibile sesto capitolo, ora pesa come una minaccia.
Scusate se ci siamo accaniti, ma John McClain ha un posto speciale nell’olimpo dei nostri eroi seriali e una pellicola tanto irrispettosa non merita indulgenza. Anzi, se John esistesse nel nostro mondo, probabilmente in questo momento starebbe visitando, casa dopo casa, produttori, autori, regista e altri colpevoli di questo scempio al grido di:
Yippee-Ki-Yay Motherf*cker!
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